Santoša, la pratica della contentezza
Se avete figli costantemente insoddisfatti e fate fatica ad introdurre semplici regole di disciplina, leggete questo articolo che propone una semplice pratica per acquisire un senso di contentezza e appagamento nella propria vita.
relazione, soddisfazione, figli, psicologia,
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Santoša, la pratica della contentezza

“Più che l’alternanza scuola-lavoro dovremmo promuovere per i nostri figli l’alternanza civiltà del benessere-civiltà povere! Sarebbe bello organizzare nuovi flussi migratori dei nostri figli super viziati verso le realtà dei figli che non hanno di che vivere, che sono orfani, rifugiati, senza cibo”.

Così mi diceva una signora durante uno dei nostri colloqui settimanali. Io penso, senza dirlo, che basterebbe andare in un centro accoglienza in Italia per farsi un’idea.

“Ormai mi ritrovo a litigare con i miei figli preadolescenti per il troppo tempo passato sulla PlayStation o perché si rifiutano di andare a dormire spegnendo la tv, e poi sono pure scontenti!”.

Penso che questa signora abbia ragione: penso  alla serie infinita di divertimenti  che arriva nelle nostre case, comoda certo, ma che rischia di sconfinare e invadere la nostra capacità di stare in relazione e di essere contenti con poco, per un sorriso o per una parola che ci conforta, che ci rassicura, per il calore di un abbraccio.

La nostra civiltà cosiddetta avanzata sta dimenticando i gesti della relazione: l’unico gesto che rischiamo di praticare, anche di fronte ai nostri amici in carne ed ossa, e’ guardare uno schermo e scrollare i pollici .

L’unico nostro inseparabile amico, spesso, e’ un telefono appoggiato sul tavolo mentre ceniamo, che ci fa sobbalzare e distogliere da ciò che stavamo dicendo, che ci sottrae al piacere di un momento in famiglia. Sempre più spesso le persone sostituiscono le distrazioni compulsive così facilmente disponibili su internet o sui mille canali tematici in tv, anche al dolore di una perdita, al tempo così prezioso del lutto.

Eppure facendo ciò dimentichiamo che la elaborazione interna di emozioni e ricordi  insieme alla condivisione di questi momenti con persone a noi vicine, è parte di quella facoltà così esclusivamente umana di stare in relazione, di accedere ad una elaborazione cognitiva del dolore, del piacere, della gioia, che si àncora in una storia di relazioni, non solo nel momento di un dettaglio isolato, senza un contesto. Noi esseri umani siamo predisposti a mettere insieme i pezzi di un puzzle, e questa è una facoltà cognitiva che costruisce continuità.

Ma oggi la frammentazione del flusso comunicativo interrompe i legami fino a far sì che rischiamo di dimenticarcene.

Ci illudiamo di avere amici, contando il numero di connessioni online, ma non sappiamo, nella realtà, come coltivare queste amicizie, come farle crescere, alimentarle dal vivo.

Molto spesso ci nutriamo solo di parole scritte velocemente su un messaggio, senza introdurre un pensiero più profondo, che allarghi l’orizzonte, in uno scambio comunicativo attivo e dal vivo, che tenga conto anche degli aspetti non verbali del comunicare: sguardi, intonazione, gesti.

Eppure l’uomo ha un cervello di grandi dimensioni rispetto ai primati, e non è un caso, è predisposto proprio per questo, per il pensiero, per la relazione. Le neuroscienze oggi ce lo confermano.

Invece i nostri ragazzi che giocano con la Playstation per esempio a “Fortnite”, usano il loro cervello solo in maniera compulsiva, ripetitiva, lo abituano solo a premere grilletti, a mirare un obiettivo da eliminare.

Così facendo rischiamo pero’ di illuderli che gli ostacoli non esistano, che basti poco per abbatterli e andare avanti, che perdere la vita e poi riaverla, talvolta pagando, sia normale, sia una realtà.

Invece possiamo educarli a vedere che nella realtà non è così, che la vita persa non torna, che non possiamo eliminare gli ostacoli solo armandoci di armi sempre più potenti.

La cultura della guerra passa anche attraverso queste abitudini.

Possiamo educarli ad ascoltarsi, a chiedersi come stanno dopo che hanno finito di stare passivamente o reattivamente davanti a uno schermo, e, se sono scontenti perché ad un certo punto devono interrompere pur avendo giocato a lungo, possono imparare a chiedersi cosa fare per essere contenti.

Ci sarebbero giochi molto diversi da poter insegnare e fare in compagnia, magari proprio la sera in famiglia, invece sembra che l’addestramento militare virtuale abbia sostituito quello reale, quel servizio militare che era chiesto tempo fa e che richiedeva una ferrea disciplina.

Il filosofo Patanjali nei suoi Yoga Sutra (YS II,32) ci insegna la pratica della Contentezza, Santoša, una delle regole per vivere in armonia con gli altri e con se stessi.

Mi sento di raccogliere questo invito e di estenderlo a chi voglia decidere di iniziare un cambiamento, anche con i propri figli: esercitiamo dunque l’arte dell’appagamento, della contentezza che, in un meccanismo fisiologico di circolo virtuoso, possa influenzare chi ci è accanto.

Appagamento significa una soddisfatta accettazione di qualunque cosa accada nella vita, non turbata da invidia o da inquietudine, condizioni queste ultime che creano squilibri nella mente. Invece di essere sempre alla ricerca di qualcosa d’altro, possiamo praticare il senso della contentezza che è la chiave della riuscita nella vita, poiché ci pone in una condizione mentale estremamente positiva e dinamica.

L’obiettivo è il conseguimento di quella pace che ci pone aldilà dell’illusione e della miseria. Certo, per conseguire questo appagamento supremo e la tranquillità mentale che ne consegue è necessaria un’autodisciplina prolungata, una vigilanza e un allenamento costanti della mente, per mantenere il giusto atteggiamento nella vita.

È vero che la tradizione indiana parla di conseguimento di santoša come una virtù, parola assai desueta ai giorni nostri. Resta il fatto che per acquisire una virtù è necessaria una azione volontaria.

Avverto qui un punto di contatto con la mia teoria psicologica di riferimento, l’Analisi Transazionale, che si fonda sul concetto di RIDECISIONE: tutti possiamo, se lo decidiamo  dopo un momento di presa di consapevolezza, avviare un cambiamento nella nostra vita.  Decidere è un’azione volontaria.

Penso che possiamo insegnare ai nostri figli la ricerca di questo senso di appagamento, se lo decidiamo, per introdurre nella nostra vita una semplice pratica che possa calmare la nostra mente e la loro, perché possano gustare la soddisfazione delle piccole cose, semplici.

Nel mio piccolo mi esercito a sognare un mondo diverso, un mondo dove tornare a camminare e ad incontrarsi per le strade, a giocare nei cortili, dove poter conoscere le persone dal vivo, dove il parlarsi e sorridere possano servire da antidoti all’isolamento e a smussare gli angoli acuti del nostro ego. Un ego che, se preso troppo sul serio, rischia di diventare un despota irascibile e pericoloso.

Sogno, come diceva un signore alla cassa del supermercato, di tornare a quel mondo in cui “prendevi l’autobus per attaccare bottone con qualche ragazza. Adesso invece sono tutte lì con il telefono in mano e ciao..”.

Attaccare bottone… chissà: guarda caso un gesto che attraverso un oggetto serve a mettere in contatto due pezzi diversi di un abito.

Chissà che la buona vecchia sartoria non possa insegnarci la via maestra della comunicazione: mettere a contatto reale due esseri umani senza alcuna mediazione possibile.

Chiediamoci perché ci fa tanta paura l’altro.

 

Daniela Cristofori, psicologa, psicoterapeuta